Verso sud

Da Marrakech a Taroudant  alla scoperta del Marocco solidale

Mario Anton Orefice

Il vento dell’oceano

Ci sono viaggi che sono come una medina, pieni di cose, di gente, di sguardi, viaggi che ti portano in posti che non avresti visto mai, viaggi che cercano di costruire un mondo migliore, sostenibile, inclusivo, onesto. Sono a Casablanca e manca qualche giorno alla partenza, il vento dell’oceano soffia tra le piccole finestre all’ultimo piano di una casa stretta e lunga nell’antico quartiere ebraico “il mellah, oggi Bhira, nella vecchia medina. Qui è cresciuto Mohamed Rafia Boukhbiza, fondatore dell’associazione Sopra i ponti con sede a Bologna, impegnato nella difesa di migranti e in progetti di cooperazione e turismo responsabile. Sua moglie Consuelo Paris, cittadina delle Marche, fa parte dello staff di ViaggieMiraggi onlus, una cooperativa sociale che è anche agenzia turistica alternativa, etica, solidale, con sede a Padova e centinaia di progetti sociali.

Insieme ad altri otto soci animano la cooperativa Asdikae Bila Houdoud e il progetto Maroc Nature Culture, che favorisce il turismo responsabile e  promuove on line i prodotti di oltre quindici piccole cooperative rurali nei settori alimentare, artigianale e cosmetico.

Ci aspettano giorni intensi, incontri con famiglie che vivono di piccole economie, dialoghi  con associazioni e cooperative che lavorano per il bene di tutta la comunità, luoghi di rarefatta e sorprendente bellezza come l’Arco del mondo della spiaggia di Legzira, le foreste d’argan con alberi che nel vento sussurrano enigmatiche melodie, i tramonti  avvolti dai gabbiani a Essaouira, chilometri di canzoni e risate in compagnia, notti di luna piena, il richiamo potente del muezzin per la preghiera del mattino, i tamburi in pelle di dromedario riscaldati sul fuoco, la musica degli schiavi, lampeggianti teiere e fumanti tajine.

 

Maroc Nature Culture

Al primo piano di questa casa, con gli scalini stretti e colorati che si attorcigliano come le corde delle barche, due stanze, in una sono esposti i prodotti delle cooperative della rete  Maroc Nature Culture e Rete Mediterranea per lo Sviluppo e l’Economia Sociale, nell’altra un bazar di capi d’abbigliamento, giocattoli e materiale sportivo da donare ai villaggi rurali e di montagna. Alle pareti manifesti che sanno da che parte stare, contro il razzismo e le mafie, a fianco delle minoranze, delle donne, dei migranti che vivono ai margini della società e senza prospettive per il futuro, se non il sogno disperato di superare le barriere alte sette metri di Ceuta e Melilla. Ad aiutarli la parrocchia di Notre Dame de Lourdes e le suore di Madre Teresa di Calcutta che distribuiscono duecento pasti al giorno con il loro furgoncino colorato che ormai tutti riconoscono e aspettano agli angoli delle strade. Non lontano dal quartiere Bhira, nella Medina, Lalla Taja, a fine Ottocento si prendeva cura degli orfani.  Una donna libera a cui i padri padroni di allora negarono la sepoltura nel cimitero mussulmano. Fu il console del Belgio che mise a disposizione il terreno. La sua tomba è diventata  un marabout, un santuario. Tra questi vicoli è cresciuto anche Mohamed Zerktouni uno degli eroi del movimento indipendentista marocchino e uno degli autori dell’attentato di Natale al Marché Central del 1953.

“Esco per la preghiera, poi mangiamo”, dice Mohamed verso sera. “Ti accompagno”.

Raggiungiamo la Grande Mosquée Hassan II che si staglia tra nuvole blu come il mare nella luce di un tramonto che ci ha preceduto, poi torniamo per un’ampia pista in terra battuta, uno squarcio tra le case popolari: il progetto del comune è quello di costruire un grande boulevard, quello di Mohamed di opporsi a quest’opera “per non cancellare storia e memoria”.

Casablanca, 7 agosto 2022

 

La mia casa è a Marrakech

L’arrivo notturno dei nostri compagni di viaggio a Marrakech coincide con la festa dell’Ashura (dall’arabo ashara, dieci) che si tiene dieci giorni dopo il capodanno del calendario islamico. In piazza Jamaa el Fna e nei dintorni si cammina corpo a corpo in una centrifuga di suoni e luci.

È una città dove puoi immaginare le avventure di mercanti e viaggiatori, lasciarti incantare dai serpenti e ricordarti le parole di Daniele Silvestri: “La mia casa è a Marrakech, in quella piazza sgangherata, Così bella da sembrare una pittura, Così forte da restarti appiccicata, Pure essendo totalmente priva di una architettura, E questa cosa mai nessuno l’ha spiegata, Che quella piazza lì non è fatta di niente, Solo di polvere e di musica, e di gente colorata, Casa mia è là, e c’è sempre stata”.

La prima notte è sempre tormentata, ma al mattino si entra nella lanterna magica della Medersa Ben Youssef, mosaico di raffinate zellige, architetture in cedro del Libano cresciuto sui ripidi pendii della catena dell’Atlante, lastre di marmo di Carrara e la piscina centrale con i suoi eleganti getti  in bronzo. Ci si perde tra le stanze del Palais Bahia, costruito dal sultano Abdelaziz Si Moussa per ospitare con sfarzo le sue quattro mogli e le ventiquattro concubine, come fiori di un giardino segreto.

Nel pomeriggio, via con un Ducato 14 posti bianco, verso Essaouira, l’antica Mogador, quasi una Fata Morgana in riva all’oceano, con i suoi vecchi cannoni puntati verso l’orizzonte e quel vento incessante che porta il mare dentro le ossa delle case, in ogni tappeto e trama di stoffa. Alla guida Mehdi, autista attento e timido conversatore. Accanto a lui Mohamed Rafia e Ismail El Mansor, studi di informatica,  largo sorriso, profonda conoscenza del Marocco e responsabile degli aggiornamenti nel corso del viaggio…c’è chi giura siano stati 2523. Sono fieri di essere berberi, ma non chiamateli berberi, che è una storpiatura della parola araba barbar, ovvero barbaro. Loro sono Amazigh, si pronuncia Amasir e significa “uomini liberi”, abitavano il Sahara e il Nordafrica prima dell’arrivo degli arabi nel settimo secolo dopo Cristo.

A bordo anche Luca, giornalista, Martina, avvocato,  di Torino, Gianbattista, attore, Claudia, ingegnere ambientale, di Molfetta, Paolo, docente universitario di economia, la moglie Silvia, funzionaria dell’Istat e la figlia Elisa, studentessa delle medie e mascotte del gruppo,  di Roma, Monica, advisor di produzioni cinematografiche,  di Milano, Andrea, orologiaio,  di Milano, Ignazio, insegnante, di Brescia, Alessandro, erborista, di Genova.

A Essaouira, verso sera, il tramonto ci vola negli occhi accompagnato dal canto dei gabbiani. Gli innamorati lo guardano come un’alba e si baciano nel cuore, i pescatori sperano che domani ci sia meno vento. In città convivono i mestieri più umili e le boutique più esclusive, i vicoli colmi di immondizie e le strade chic all’ombra delle palme e delle vecchie mura.

Marrakech, Essaouira, 8 agosto 2022

 

Vita spinosa

A Imintagant al Ghazoua, un piccolo villaggio a dieci chilometri da Essaouira incontriamo la Cooperative agricole feminine Assafar, dieci donne che lavorano i semi d’Argan con una pazienza e una dedizione infinite; di madre in figlia si tramandano i sassi testimoni di una solidarietà ancestrale con cui spaccano a uno a uno i gusci della pianta. Vita spinosa tra queste poche case di campagna bianche e spruzzate dal rosso delle bouganville: da un quintale di materia prima si ricavano solo due litri e mezzo di olio cosmetico e tre di olio alimentare. Con le macchine si arriva a cinque e a sette. Eppure una maggiore autonomia della donna marocchina, stretta nelle realtà rurali tra maschilismo e precetti religiosi, passa anche da piccole cooperative come questa, un leggero passo in avanti rispetto alla completa dedizione a marito, figli e parenti.

Poi la sera arrivano i musicisti, la musica gnawa illuminata dalla luna piena canta il dolore e la nostalgia degli schiavi deportati dal Ghana, paese che forse ha ispirato il nome, dal Sudan occidentale, da Mali, Niger e Senegal verso Oriente e verso l’Europa.

Ci ritroviamo in cerchio, sono arrivate anche le donne e i bambini delle case vicine; in una pausa Mohamed intona una canzone dedicata a Gaza, poi si canta Bella Ciao e si balla tutti insieme.  A mezzanotte negli sguardi che ci salutano con affetto s’intuisce la domanda “Perché andate via?”.

Essaouira, 9 agosto 2022

 

Ida Aguerd

Un insolito barbiere che esercita la sua arte sotto una tenda ci guarda malissimo e nessuno prova a fotografarlo, poco lontano il “parcheggio” degli asini, vaghiamo per il souk di Ida Aguerd immersi tra gli odori delle spezie e quelli meno nobili dei muli, alla ricerca di una contrattazione conveniente, che di solito parte dal prezzo richiesto lo divide per tre e arriva ad accettare la conclusione dell’affare a una cifra  che si aggira intorno alla metà di quella annunciata in primis. Il tè a Ida Aguerd si beve in botteghe rudi e sbrigative lungo la strada. Al ritorno il fantasma di Jimi Hendrix appare sul muro di un bar, nero su fondo blu e uno spinello tra le mani. Jimi, autore tra le altre di Castle made of sands ispirata alle rovine del palazzo del sultano a Diabat vicino Essaouira, era un fan della musica gnawa che portò da queste parti  negli anni Sessanta anche Frank Zappa, Cat Stevens, Leonard Cohen, Bob Marley. Chissà come se la cavarono con i divieti di consumare alcol e altre proibizioni.

Prima di spostarci più a Sud per conoscere la straordinaria Fatima, il colto Sem e la giovane manager Hajar, giochiamo con le dune di Sidi Mbarek, respiriamo l’aria spruzzata d’oceano e ascoltiamo la storia del marabout del luogo che si batteva per i poveri contro i potenti dell’epoca; lungo la costa ci spiazzano le vestigia coloniali di Sidi Ifnì, città simbolo nel 1860 della liberazione dal protettorato spagnolo, lo splendido arco naturale di roccia rossa della spiaggia di Legzira, le donne a caccia di marito che affollano Mirleft dominata da un gigantesco masso, un luogo sacro che le aspiranti spose devono scalare per favorire le nozze.

Essaouira, 10, 11, agosto 2022

 

Izourane

Si parte da Essaouira alle dieci, destinazione il villaggio di Imzilene e la cooperativa femminile Izourane, che vuol dire incontro. Passiamo dalle bananeraie di Tamrì, incrociamo le carovane di dromedari guidate dai nomadi che non sono ben visti dagli agricoltori locali, ci fermiamo al belvedere della kasbah di Agadir e guardiamo dall’alto la scacchiera di architetture moderne e industrie del porto.

A Imzilene ci accoglie Sam, vent’anni di sorrisi e dolcezza, un inglese che sembra sia nato a Londra, invece ha studiato con Netflix e con sua cugina Hajar, marketing manager in un’azienda francese di Agadir. In queste vacanze  aiutano la cooperativa a comunicare nel web e a organizzare gli affari in modo più efficiente. Il mondo rurale che guarda a quello moderno con molti dubbi e quello moderno che guarda alla tradizione come una radice per non perdersi oppure come una chiave per il futuro.

La nonna Fatima, ottant’anni solo sulla carta, ascolta e vuole loro bene, anche se lei l’argan preferisce lavorarlo a mano, e l’amlou, una crema di mandorle, miele e olio d’argan, faticarselo con una pesante mola in pietra. La sua faccia avvolta nel velo sembra una di quelle dei Prigioni di Michelangelo. La forza che emana non è solo spirituale, l’abbiamo vista spingere a braccia insieme a Hajar, una vecchia Volkswagen Passat insabbiata lungo una pista nella foresta d’argan.  Lì avevamo camminato a lungo verso il tramonto, nel vento ogni albero suonava la sua melodia e il sole tra le nuvole sembrava luna.

Hassan, con i suo baffoni neri e un’elegante djellaba bianca, è il presidente dell’Association Sidi Moussa pour le oeuvres sociaux. Con l’aiuto dei volontari e di un finanziatore giapponese gestisce due pozzi d’acqua alimentati con i pannelli solari. La rete idrica del villaggio serve 540 famiglie, ognuna contribuisce come può, non c’è una bolletta dell’acqua: con le somme raccolte si fanno funzionare le tre classi della scuola materna. Anche le foreste d’argan sono gestite come una risorsa comune, l’unico proprietario è lo Stato ma non ci sono concessioni demaniali ai privati, piuttosto confini consolidati nel tempo e che sono segnalati da pietre o da lettere sugli alberi. Così tutti sanno dove possono raccogliere l’argan per la loro famiglia o per la loro cooperativa. E se qualcuno non rispetta le regole – accade molto di rado – non si chiama la polizia ma El Mkaden o lo Cheikh, uomini di una certa esperienza e autorevolezza che intervengono per mediare i conflitti all’interno della comunità.

 

Imzilene, 12, 13 agosto 2022

 

Le case di Aglou

Le case dei pescatori di Aglou sono adagiate come alghe sulla scogliera, alcune hanno colori pastello per sedurre i turisti, altre sono più aspre e sgarrupate, parlano di vite semplici ma non fuori dal mondo. Mentre prendiamo un tè, arriva una ragazza con degli occhiali che sembrano fondi di bottiglia, ci parla in italiano, è qui in vacanza dalla zia ma studia e vive con la famiglia a Vittorio Veneto in provincia di Treviso.

Da Aglou a Tiout sono 140 chilometri di canzoni e risate, a turno ognuno sceglie la sua preferita, il tempo passa veloce tra Quello che non ho – De Andrè, Volver – Estrella Morente, Mentre dormi – Max Gazzè, Non c’è – Laura Pasini, La locomotiva – Guccini, Grecale – Murubutu – Merlo rosso -Mannarino, Rimmel e Generale – De Gregori, La mia casa– Daniele Silvestri, Cos’è la destra, cos’è la sinistra –  Giorgio Gaber, Cento Passi – Modena City Ramblers…

 

 

Le gardien de bagage

Nell’oasi di Tiout, tra le palme e il l profumo di verbena, un gruppo Amazigh canta attorno al fuoco, qualcuno scalda la pelle dei tamburi in pelle di cammello per rendere il suono più regolare, il ritmo è ipnotico, le fiamme e il fumo, narrano delle lunghe notti  nel deserto. Rha dentro a un mulino vecchio di secoli, sorride e mostra tra le mani ruvide a cucchiaio il grano prima di metterlo nella macina. Poi la sera all’Auberge Ignaren una donna dalla pelle scura, i capelli raccolti in un fazzoletto bianco e una blusa a fiori blu, cucina il Batbout sulle braci in un forno d’argilla incandescente. Si raccontano storie interessanti, assaporando la harira e i datteri appena raccolti: quelle della famiglia proprietaria dell’auberge a cui appartiene il leggendario fotografo Mohamed Bennani Shwani, detto Tanjawi; dell’ultimo libro, Respinti, scritto da Luca insieme a Duccio Facchini direttore di Altreconomia sulle “sporche frontiere d’Europa”; Martina ha camminato due mesi con l’Ascs (l’Agenzia scalabriniana per la cooperazione e lo sviluppo)  lungo la rotta dei migranti dalla Turchia a Trieste, così è nato Umanità interrotta: diario di viaggio sulla rotta balcanica; Gianbattista trent’anni fa lasciò un lavoro sicuro da biologo per seguire la sua vocazione, il teatro, gira l’Italia con lo spettacolo Nulla d’importante; Claudia, una carriera da ingegnere ambientale, ha talento come fotografa e una mostra prima o poi la organizzerà; con Paolo e Silvia ci s’interroga se un’altra economia sia davvero possibile o se le piccole cooperative che abbiamo incontrato siano destinate a soccombere con l’arrivo dei supermercati e delle multinazionali. Serge Latouche in La scommessa della decrescita,  Helena Norbert-Hodge nel documentario L’economia della felicità, Pepe Mujica in Una vita suprema di Kusturica, ci spiegano che un altro mondo, più solidale, inclusivo, equo e senz’armi, è possibile, almeno per brevi momenti e in piccoli contesti.

A Taroudant, la mattina del sedici agosto verso le undici, l’ultima immagine è in bianco e nero: un ombrellone sfilacciato e l’insegna arrugginita di un gardien de bagage; a lui caro amico puoi affidare sacchi e valigie per andare con la camicia sporca e le scarpe impolverate di sogni ancora più a Sud.

Aglou, Tiznit, Tiout, Taroudant dal 13 al 16  agosto 2022

 

 

Pubblicazione Diario di viaggio VERSO SUD

Edizioni Take Off